laboratorio visivo sulla città

mercoledì 21 maggio 2008

KIИO_9 > La voce della luna

La voce della luna
Federico Fellini (1990)

È un lavoro volutamente disomogeneo, un intreccio di storie e di spunti più vicino al bozzetto che all'opera compiuta. È il film in cui Fellini più esplicitamente denuncia la sua fede assoluta nella dimensione allucinata e favolosa del soprannaturale e nell'occulto.

Quasi tutto notturno, assolutamente onirico, il film è attraversato dalle ermetiche vicende del magistrato Gonella (Paolo Villaggio), paranoico che vede complotti ovunque, e soprattutto di Ivo Salvini, il protagonista interpretato da Roberto Benigni, strepitoso sotto la guida di un Fellini capace di guidarlo e contenerlo, trasformandolo in un ingenuo a metà tra Pinocchio e Leopardi. Pur fatalmente lontano dalla strepitosa prova dell'attore toscano, Paolo Villaggio traccia con diligenza e mestiere la figura dell'antagonista, il "forte fuori e piccolo dentro" che fa da pendant al Benigni bambino fuori e gigante dentro.

Salvini e Gonella percorrono la Pianura Padana, inseguendo sogni ed ascoltando la voce della Luna che sale dai pozzi. Quando, poi, i paesani catturano "una fetta di Luna" ed organizzano per l'occasione la "Gnoccata" (una festa con annessa un'insulsa tavola rotonda televisiva, svolta in una piazza con architetture stridenti tra di loro), la realtà dei sogni verrà infranta. Solo Salvini, forse, avrà un'idea più chiara del mondo ("Se tutti facessimo un po' di silenzio, forse potremmo capire" è l'ultima sua frase nel film).

Il film è un voluto elogio della follia, con la satira dei falsi valori della moderna civiltà televisivo-berlusconiana, magnificamente messa alla berlina con la "Gnoccata", vera sintesi dell'Italia della fine degli anni '80 e del qualunquismo. Alcune sequenze, come Marisa che diventa una locomotiva quando fa l'amore, o il valzer di Gonnella con la duchessa davanti agli ammutoliti giovani di una discoteca, nonché tutta l'atmosfera del film possono sembrare troppo scontate se non banali; ma se si entra nella logica dell'assurdo voluta dal regista, non ci si distacca facilmente dalla poltrona.

"Sono attratto da un racconto che pur provocando continuamente il riso per l'arbitrio che domina sovrano e toglie significato a ogni azione e pensiero, diventa a tratti straziante per il bisogno disperato di darglielo comunque un significato, perché la sua assenza stringe il cuore di paura, e rende la vita assurda. Un racconto picaresco in una dimensione, in un paesaggio, che sta fra Bosch, il mondo attuale dell'industria, Don Camillo, la pubblicità della Montedison, i ricordi dell'infanzia, in un percorso quotidiano continuamente minacciato da fantasmi interiori, in una incessante condizione di umiliato e ugualmente esaltato di emarginazione."

(Federico Fellini commenta il libro di Cavazzoni, 1989)

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