
L'uomo con la macchina da presa (Человек с киноаппаратом, Chelovek s kino-apparatom)
Dziga Vertov 1929
"Io sono il cine-occhio,
io sono l'occhio meccanico,
io sono la macchina che vi mostra
il mondo come lei sola può vederlo.
Ormai sarò liberato
dall'immobilità umana.
Sono in perpetuo movimento,
mi avvicino alle cose, me ne allontano,
mi infilo sotto, ci entro;
mi sposto verso il muso di un cavallo in corsa,
attraverso le folle a tutta velocità,
precedo i soldati all'assalto,
decollo con gli aeroplani,
mi giro sulla schiena, cado
e mi rialzo allo stesso tempo dei corpi
che cadono e si rialzano"
Dziga Vertov, Manifeste de Kinoks, 1923
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Il film è forse il compimento massimo (e finale) del movimento kinoglaz (cineocchio), nato negli anni '20 per iniziativa di Vertov e propugnatore della superiorità del documentario sul cinema di finzione che, in sostanza, deve essere bandito perché inadatto a formare una società comunista. Il film narra le diverse vicende che accadono nell'arco di una giornata, dall'alba al tramonto, nella quale il cineoperatore riprende la vita quotidiana per le strade di Odessa attraverso ardite inquadrature e sperimentali effetti ottici. La prima e l'ultima scena si svolgono in una sala cinematografica da dove nasce e si sviluppa la narrazione fino alla morte della macchina da presa davanti al teatro Bolshoi.
Vertov credeva che le storie di finzione fossero solo fumo gettato negli occhi del popolo dal potere borghese. La sua opera cinematografica è perciò tutta tesa a raggiungere uno scopo sociale, attraverso la documentazione della sola realtà, anche laddove l'occhio umano non può arrivare. Solo la verità interessa l'occhio della cinepresa e solo guardando e mostrando cose reali si può costruire una società migliore. Il suo purismo trova riscontri in altri ambiti della cultura sovietica del tempo, ma nell'ambito cinematografico, in piena espansione, i contrasti sono grandi anche all'interno di un Paese dominato da un'ideologia così forte e unificante.
Così dopo alcuni anni improntati al rigore e a diffondere le tesi del movimento kinoglaz, Vertov si trova nella necessità di dare una risposta più forte alle critiche che, ora, gli giungono anche dagli apparati di partito, preoccupati che troppa sete di verità si scontri con le esigenze della propaganda.
L'uomo con la macchina da presa va oltre i documentari girati per strada, fuori dalle fabbriche o nei villaggi: insieme alle scene di vita quotidiana è lo stesso operatore ad essere ripreso. Lui è l'oggetto stesso dell'indagine dell'occhio scrutatore, nell'atto di spostarsi, sistemare i suoi attrezzi o semplicemente filmare.
È un primo caso di cinema nel cinema che, al di là dell'iniziale intento ideologico (il cineoperatore lavoratore alla pari dell'operaio), innesca un meccanismo di meta-cinema che coinvolge in un piacevole gioco tanto lo spettatore quanto il regista che, perso il "purismo" iniziale, acquista però una grande forza espressiva.
Vertov, esibendo abilità ed estro con riprese innovative e giochi di montaggio esasperati quasi fosse un saggio di tecniche d'avanguardia, si serve della sua padronanza del mezzo tecnico per dare impulso alla sua idea di cinema, sino a questo film improntata alla ricerca della verità cronachistica, e ora lanciata verso la scrittura di un nuovo linguaggio espressivo.
La verità dell'occhio che guarda diventa essa stessa una verità da osservare, innescando riflessioni nello spettatore cui forse non è più possibile dare risposte certe.
Il film è privo di didascalie, andando così contro le più semplici e consolidate convenzioni del cinema muto.
Dal punto di vista tecnico è un'esibizione di tutto ciò che l'inventiva e lo slancio sperimentale dell'epoca potessero esprimere. Doppie esposizioni, salti di scena, carrellate, riprese oblique, primissimi piani, split screen, fast motion, slow motion, freeze frames e tanto altro ancora, corredato oltretutto anche dal documento delle spericolate acrobazie effettuate dallo stesso operatore per la realizzazione di riprese bizzarre ed originali.
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